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  1. La lavandaia, un mestiere dimenticato
    dal web

    By marcel53 il 16 Mar. 2017
     
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    La lavatrice moderna, inventata in America nel 1906, assemblando un mastello di legno con una pompa da giardino, modificata nel 1930 dall’industria Miele, ancora attiva nel campo degli elettrodomestici, variando il primo movimento sussultorio continuo, in movimento ondulatorio circolare e reversibile, arrivò in Italia per la prima volta, nell’aspetto e con la tecnologia simile a quella che conosciamo oggi, nel 1946, alla fiera di Milano.
    All’inizio fu scambiata per una macchina per montare la panna a causa della grande quantità di schiuma che produceva, poi, con grandi difficoltà, dovute soprattutto alle scarse disponibilità economiche delle famiglie di allora e alla diffidenza delle donne verso qualunque dispositivo che sostituisse le loro abilità manuali, cominciò lentamente a diffondersi alla fine degli anni '50, sostituendo così un antichissimo mestiere, quasi esclusivamente femminile, quello delle lavandaie.


    Mani di lavandaia
    Livorno, città d’acqua, ha ben conosciuto queste donne forti e vigorose. Il loro mestiere duro e scarsamente remunerativo si articolava in tre figure distinte. Le lavandaie di fiume che esercitavano il loro mestiere principalmente lungo il torrente Riseccoli (ne conserva ancora memoria il Vicolo delle Lavandaie, che si trova nelle vicinanze del suddetto torrente ormai scomparso).
    Le lavandaie a domicilio che si recavano presso le famiglie che richiedevano i loro servigi. Fino agli anni '50 del secolo scorso esisteva ancora questa figura di donna, che girava di casa in casa, con un lungo grembiule di tela cerata, con le mani enormi, sformate dall’artrite, arrossate dai detersivi aggressivi, china sulla conca di terracotta, che sfregava energicamente sull’asse di legno la pesante biancheria di lino, di canapa e di cotone e contemporaneamente diffondeva, senza acrimonia, pettegolezzi, annunci di nascite e di morti, racconti di tradimenti, di emigrazioni, di ritorni dalla guerra o dalla prigionia. Insomma il gossip dell’epoca!!
    Infine più comuni e più conosciute erano le lavandaie che esercitavano il loro mestiere nei lavatoi pubblici.
    Di questi ultimi, nella nostra città si conservano ancora alcune testimonianze, soprattutto nei quartieri periferici: il settecentesco lavatoio di Montenero, detto “pelago”, il lavatoio di Antignano, detto “la fontina”, per un condotto che erogava ininterrottamente acqua potabile, situato in Via Duca Cosimo, il lavatoio di Salviano, recentemente ben restaurato, che conserva ancora alcuni antichi rubinetti a testa di leone, il lavatoio di Collinaia, restaurato, ancora talvolta utilizzato dalle abitanti del quartiere, il lavatoio di Villa Regina, ridotto ormai a poco più che un rudere, seminascosto da cespugli e rovi, i lavatoi chiusi situati nei cortili dei grandi casermoni popolari di Fiorentina, di Shangai, della Stazione, di Colline, ormai adibiti solo a ripostigli di rottami.
    L’unico veramente scomparso è quello più grande e più importante: il cosiddetto lavatoio di città, situato nell’antica Via dei Lavatoi, presso l’argine del fosso mediceo che costeggia l’attuale Via degli Avvalorati, oltre il ponte dell’Angiolo, detto nel settecento Ponte delle Lavandaie.
    Disponeva di ben 52 vasche, allineate su quattro file, che si fronteggiavano a due a due, serviva tutto il centro città e il quartiere della Venezia. Fu interrato nel 1960 con le macerie dell’isolato che comprendeva l’antico Teatro degli Avvalorati, bombardato durante la guerra, per far posto al largo viale che unisce la piazza della Repubblica alla piazza Civica.


    Piccola lavandaia col sacco dei panni
    Spesso ai lavatoi era addetto un custode con la mansione di sorvegliare il corretto uso della proprietà pubblica e il rispetto degli orari e delle regole. Tale lavoro era così ambito che in una domanda di assunzione del 1916, un certo Gino Lotti, rivendica il suo diritto, vantando, oltre ad altre competenze, anche i suoi meriti di guerra. Tanto desiderio di quel lavoro lo si può spiegare con tre ordini di motivi: lo stipendio sicuro di un incarico comunale, la presenza nei pressi dei lavatoi stessi di un piccolo pezzo di terra adibito alla coltivazione delle erbe odorose, poi rivendute dal custode alle lavandaie per profumare il bucato, nel quale veniva ricavato anche un orticello personale che integrava così in due modi il magro stipendio comunale, e, last but not least, la possibilità di trascorrere le giornate di lavoro in mezzo alle donne.
    Mentre i lavatoi dei quartieri periferici (Antignano, Montenero, Salviano e Collinaia) prendevano l’acqua da polle o fonti presenti in zona, fino al 1868 circa i lavatoi di città erano riforniti quasi settimanalmente con botti di acqua trasportate su carri trainati da buoi o asini e solo in un secondo momento furono agganciati all’acquedotto comunale.
    Dello svuotamento, pulizia e disinfezione delle vasche, che precedeva il rifornimento con acqua pulita proveniente dal purgatorio di Pian di Rota (l’odierno Cisternino), era incaricata la Commissione Sanitaria della Pubblica Igiene che avrebbe dovuto provvedervi settimanalmente, ma spesso, per molteplici ragioni, i tempi di intervento si allungavano, provocando soprattutto in estate, le proteste degli abitanti del circondario, per i miasmi insopportabili che si levavano dalle vasche. Negli archivi comunali è conservata la lettera della signora Teresa Torre, in data 30 Luglio 1867, che, con il linguaggio fiorito dell’epoca, lamenta di non poter tenere le finestre aperte, per alleviare il caldo estivo, a causa dei cattivi odori pestilenziali provenienti dal lavatoio sottostante.
    Il carteggio prosegue con una lettera, datata 23 Agosto 1867, nel quale l’Architetto dei Pubblici Acquedotti Dalla Valle informa il Sindaco che la pulizia sollecitata era stata impedita da un abitante del luogo, accompagnato da una “lavatrice” (termine premonitore?), adducendo la ragione che la propria moglie era in stato puerperale (non è spiegato il nesso tra le due cose!).


    Lavandaie al lavatoio
    Pochissimi uomini esercitavano il mestiere di lavandai: le cronache dell’epoca riportano curiosi episodi, avvenuti proprio nel lavatoio di città.
    Alcuni militari della Caserma “G. Russo” della Guardia di Finanza, andavano là a lavare le divise e la biancheria personale e spesso sorgevano discussioni e liti clamorose con le lavandaie presenti poiché, forti del loro stato militare, gli uomini si arrogavano il diritto di usufruire delle vasche, senza rispettare l’ordine di arrivo.
    Il duro mestiere di lavandaia era quindi appannaggio femminile quasi esclusivo ed era riservato soprattutto alle donne sole: madri nubili, zitelle, vedove di guerra o del lavoro. Gli uomini di casa, padri, fratelli o mariti che fossero, infatti, generalmente non permettevano che le proprie donne mettessero le mani nei panni sporchi altrui, a meno che i pochi soldi guadagnati dalle donne non fossero indispensabili alla sopravvivenza della famiglia.
    Anche alcune orfane, ospitate nel Ricovero di Mendicità e nell’Istituto delle Case Pie, esercitavano questo mestiere come dimostrano alcuni documenti ritrovati negli archivi comunali.
    I panni sporchi, raccolti presso le case signorili dalle stesse lavandaie, venivano trasportati al lavatoio sulle forti spalle delle donne, dentro sacchi di iuta contrassegnati da nastrini colorati (un colore per ogni famiglia proprietaria). A nulla sarebbe valso infatti scrivere sui sacchi stessi nomi e cognomi, le lavandaie erano per la stragrande maggioranza analfabete! Quando i sacchi da trasportare erano troppi o troppo pesanti la donna si aiutava con un piccolo carretto di legno, simile alle carriole con cui giocano i bambini.
    Anche in questa attività, come in ogni altra, esistevano delle gerarchie: le bambine e le giovani, sotto la supervisione di donne più anziane, per imparare il mestiere, lavavano gli indumenti più piccoli dei neonati o dei bambini; le lavandaie adulte si occupavano della biancheria più pesante (lenzuola, coperte, tovaglie) e degli indumenti più voluminosi e sporchi; c’erano infine quelle considerate delle vere “esperte” a cui venivano affidati i corredi ricamati e ornati di trine e pizzi delle signore più facoltose. Altra categoria d’elite erano le lavandaie di Montenero che, avendo la fortuna di poter usufruire di un acqua povera di calcare, quella della Fonte di San Fele, ottenevano panni più bianchi e morbidi delle altre, erano quindi richiestissime e ricevevano compensi maggiori.


    Vecchi saponi in pezzi, di molteplici tipi, per usi diversi
    Durante le frequenti epidemie di colera o di febbri tifoidee, dovute alla scarsa igiene, alle fogne spesso ancora a cielo aperto, ai depositi di letame situati nei pressi delle abitazioni e spesso dei lavatoi stessi, prima di poter utilizzare le vasche per il lavaggio dei panni era obbligatoria la disinfezione degli stessi. All’ingresso del lavatoio si trovavano, quindi, grandi mastelli, sorvegliati da due agenti delle squadre di disinfezione, riempiti con una soluzione di acqua con sublimato corrosivo all’1 per 1000 e sodio cloridrico al 5 per 1000, nei quali si dovevano immergere i panni.
    La pulizia dei panni veniva eseguita con detergenti diversi. Il più comune ed anche il meno costoso era il cosiddetto ranno, usato per sgrassare, ottenuto con il filtraggio dell’acqua calda attraverso la cenere di legno chiaro, sostenuta da un vecchio lenzuolo preferibilmente di lino. A tale proposito spesso nei lavatoi si trovava un focolare (in vernacolo focarile) sul quale veniva sospeso un enorme paiolo per riscaldare l’acqua.
    Più tardi la funzione sgrassante del lavaggio fu affidata all’uso della soda, nome commerciale del carbonato sodico, ottenuto dal cloruro di sodio anidro.
    Altri detergenti erano la lisciva o liscivia, soluzione a media concentrazione di idrati e carbonati alcalini, usata per lavare e imbiancare; la varecchina, detta candeggina o acquetta, soluzione di ipoclorito sodico, usata per smacchiare; talvolta per rendere più efficace l’azione sgrassante del ranno venivano aggiunti gusci d’uova tritati; nel primo risciacquo dei tessuti bianchi, si aggiungeva l’indaco, soluzione acquosa di materia colorante azzurra, ottenuta dalla macerazione di piante indigofere; nei risciacqui seguenti venivano aggiunti spigo, lavanda, steli di alloro o rosmarino come profumatori.
    In tempi più recenti si affermò l’uso del sapone in pezzi o liquidato. Il più famoso è sicuramente il sapone di Marsiglia, denominato così dalla città francese in cui si trovava la maggiore produzione.
    Alla composizione tipo di oli e grassi vegetali in proporzioni variabili, venivano aggiunte spesso altre sostanze che ne cambiavano l’aspetto e la destinazione d’uso: gli ossidi ferrosi per ottenere il marmorato rosso adatto a lavare capi pesanti e molto sporchi; il marmorato verde o blu, ottenuto aggiungendo ossidi di rame e di piombo, reclamizzato dalle case produttrici con la dicitura “Lava anche con l’acqua di mare”; il sapone liquidato, più adatto a capi delicati, era ottenuto sciogliendo in acqua scaglie di sapone solido grattugiato.
    Nella seconda metà dell’Ottocento e fino agli anni sessanta del secolo scorso a Livorno si trovavano molte fabbriche di saponi, lo dimostrano gli archivi storici della Camera di Commercio ed anche l’antica toponomastica della città (l’odierna Via Piave si chiamava in passato Via della Saponiera). Le fabbriche in questione avevano una produzione diversificata, che veniva premiata in vario modo nelle varie esposizioni merceologiche, come dimostrano alcuni documenti.


    Lavandaia col fazzoletto “a doppia punta”
    L’abbigliamento povero delle lavandaie aveva due segni distintivi molto particolari: il fazzoletto a doppia punta, legato sul capo, che si dice derivi da una antica rivendicazione di un fazzoletto di terra, a loro promesso da un signorotto nel XIII secolo e mai concesso; le lunghe gonne con l’orlo rialzato e infilato nella cintura, precauzione necessaria per evitare che si inzuppassero, che si dice abbiamo ispirato i costumi e i movimenti del can can.
    La pesantezza del lavoro era in parte alleviata dal fatto che il lavatoio era uno dei pochi luoghi di aggregazione femminile nel quale le donne potevano andare senza essere accompagnate, là ci si ritrovava, si scambiavano ricette, consigli e pettegolezzi, si partecipava alle gioie e alle disgrazie delle altre e si condividevano le proprie, si cantavano canzoni nostalgiche e patriottiche, strambotti ironici e amorosi, stornelli satirici e a dispetto, si tramandavano storie e racconti di vita, si rideva e talvolta si litigava in modo così violento da far correre le guardie di città, si rifletteva sulla propria disgraziata condizione e su quella altrettanto precaria di molte altre donne. In questi luoghi di aggregazione sono nate e si sono diffuse ed affermate le prime rivendicazioni dei diritti femminili; questa è una delle ragioni per le quali gli antichi lavatoi dovrebbero essere conosciuti, tutelati ed apprezzati come siti storici, secondo le direttive emanate anche dall’Unione Europea.


    Simonetta Balestri e Gabriella Bini©





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